Storia

ANTONIO TUBELLI, L’ULTIMO MONZÙ NAPOLETANO

3 luglio 2016

“C’è una barriera ideale e invisibile in cui impatti tra passione per qualcosa e la tua vita quotidiana. Coltivi quella passione,  per qualche tempo ci convivi, ma poi ne capisci i limiti di questo alternarsi e devi scegliere”. Comincia così la lunga conversazione con Antonio Tubelli, definito l’ultimo monzù napoletano (traduzione dialettale napoletana e siciliana della parola francese monsieur. Monzù erano chiamati nei secoli XVIII e XIX i capocuochi delle case aristocratiche in Campania e in Sicilia). La sua è una risposta ad una domanda molto precisa: come può la cucina cambiare la vita di una persona?
La storia di Antonio Tubelli, ora a capo delle cucine di Gourmeet a Napoli, parte da lontano e da tutt’altra attività: faceva il sindacalista negli anni ’70, all’interno di un’azienda aeronautica, e l’impegno politico era la sua ragione di vita.
“Si viveva in piazza – ricorda Antonio – e le case erano semplicemente aperte, un punto di ritrovo dove continuare le discussioni, a volte integrandole con aspetti ludici come la doppia pista della Polistyl che io e mio fratello Lucio (figura inseparabile nella sua vita ndr) avevamo montato nel salotto di casa”.

Fu proprio quella doppia pista, attorno alla quale tutti erano presi, che contribuì a cambiare la storia professionale di Antonio Tubelli: “ero l’unico libero per mettermi ai fornelli, alle prese con un polpo, di cui non sapevo nulla, neppure da che parte cominciare – ricorda Antonio – eppure mi tornarono alla mente i ricordi di mio padre in cucina alla domenica mattina, perché a lui spettava il compito del pesce, e di mia mamma Amelia, che accompagnavo a fare la spesa, aiutandola nei lavori più umili della cucina di casa, come pelare il riso”. E quei ricordi cominciarono a far breccia: “non so come spiegarlo, a me non piaceva stare in cucina, consideravo quelle piccole azioni che mi affibbiava la mamma come una noia mortale”.
Provo a spiegarglielo io e concordiamo sulla magia di gesti quotidiani, pochi come poche erano le cose a quel tempo, che ci sono entrati dentro proprio per l’intimità in cui si svolgevano e che ci accompagneranno tutta la vita.
Quel polpo fu così apprezzato dai compagni di allora che Antonio si ritrovò a cucinare più e più volte. Ma fu l’incontro – in una stagione di tensione ideale “esageratamente bella e interessante” precisa Antonio – con Tommaso Di Benedetto, proprietario di una bettolina in cui si mangiava pasta e ceci, a liberare definitivamente la sua curiosità verso il cibo.
“Mi mise tra le mani un libro antico, una versione de Il Cuoco Galante di Vincenzo Corrado di fine Settecento. Le pagine si erano fatte così sottili e delicate che tremavo ogni volta che le sfioravo. Il linguaggio di un italiano antico, pur nella difficoltà di lettura, mi affascinava. Leggendo le ricette si innescò in me la voglia di saperne di più”.
Il suo ruolo gli permise di accedere agli archivi del Banco di Napoli dove erano ancora custodite le liste della spesa che la corte faceva per il re e per il suo seguito. Poi venne la lettura e lo studio dello Scalco alla moderna  del marchigiano Antonio Latini (1694) e del Trattato di cucina teorico-pratica di Ippolito Cavalcanti (1837).
“Da quelle letture emerse una visione chiara di quanto non ci sia niente da inventare in cucina. Eravamo in piena epoca di nouvelle cuisine ma in quei ricettari, in quelle liste della spesa c’era già scritto tutto; la commistione tra cucina di terra e di mare, uno dei tratti della nouvelle cuisine, era già praticata ai tempi del Regno delle Due Sicilie, con un obiettivo ben preciso: il mare era di tutti e i nobili dovevano esibire invece il loro potere, e questo poteva avvenire tramite l’ostentazione dei prodotti, della cacciagione, che proveniva dalle terre baronali dell’Irpinia e del Beneventano”.
Prende origine da quegli studi la voglia democratica di cucinare, di superare i limiti facendo una scelta definitiva: dare libero spazio alla madeleine proustiana del polpo (come ama definirla Tubelli),  lasciar affluire i sapori, gli odori, i ricordi come quello delle passeggiate a mare, con il papà Espedito, per andare a pranzo sul litorale di Torre del Greco – i migliori cefali si trovano a Torre del Greco, aveva trovato scritto su uno degli antichi ricettari – per scoprire che tutto è una connessione di gusti, di sapori, di storia.
Sono gli anni della nascita di Arcigola e Antonio, con suo fratello Lucio e lo psichiatra Elio Pomella, apre Il Pozzo, uno scantinato che diventa il circolo numero 6 di Arcigola. Ma la vera folgorazione accade quando Antonio incontra Angelo Paracucchi, il grande cuoco della Locanda dell’Ameglia a Sarzana.
“Siamo a metà anni ’90 e lì finisce la mia vita precedente. – ammette Antonio Tubelli – Senza il bagaglio che avevo acquisito non mi sarebbe interessata la cucina. A questo, dall’incontro con il maestro Paracucchi, si aggiunge quella sensibilità e quel rigore che ti conferiscono identità compiuta”.
Diventò l’executive chef della Locanda, spronato dal fratello Lucio ad accettare, resta quasi due anni, poi il rientro a casa; a questo segue l’apertura di Timpani e Tempura , un gioiellino di osteria, gastronomia e asporto, nella sua città.
“Ho scoperto la tempura nei miei viaggi in Giappone e l’ho ritrovata nei Calendari Ecclesiastici dei frati virginiani a Rocca San Felice, in Irpinia. – racconta Antonio Tubelli – Lì ho riflettuto su come sia cambiato il nostro tempo in cui le merci si muovono ormai ovunque, ma gli uomini meno. Se prima viaggiano di pari passo, con i missionari, ad esempio, che insegnarono ai giapponesi la tecnica della tempura, oggi le merci sono affidate alla logistica dove bastano pochi”.
Il viaggio è invece elemento imprescindibile senza il quale, ad esempio, non sarebbero mai venuti in Italia i monzù, portando un bagaglio di cultura e tecnica gastronomica che qui si è contaminato con i prodotti di un territorio, a quel tempo delle Due Sicilie, che fece della cucina napoletana una tra le più importanti nel mondo.
Ed arriviamo alla fine di questo lungo viaggio di parole, riflettendo con Antonio proprio sulla grandezza della cucina napoletana e sulla tradizione.
“Mi tornano in mente i gesti di mia madre: prendeva qualcosa di povero e lo trasformava in qualcosa di straordinario. Sta racchiusa lì la tradizione: l’emozione che ti dà quel cibo fatto in quel modo e in quel luogo”.

Luigi Franchi
luigifranchi@solobellestorie.it

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