Educazione Civica

CI VUOLE RISPETTO!

31 luglio 2017

“Buongiorno Luigi. Tutto confermato per stanotte, ore 4,30, giù al porto della Marina Lobra. Appuntamento vicino a un ristorantino che si chiama Funiculì Funiculà. In ogni caso ti lascio il cellulare, si chiama Tonino S.Rosa, il signore con la maglia celeste. Ci vediamo stasera, Mimmo”.


Non poteva regalarci gioia più grande, Mimmo.
Scendiamo per i vicoli di Marina Lobra, non si sentono altri rumori oltre al ritmo stentato di un Ape e di un motore che si allontana, quello di una barca verso il mare aperto.


Al porto Tonino S.Rosa deve ancora scendere, ci dicono tre uomini che presidiano, insonni, un parcheggio destinato, tra poche ore, a riempirsi delle auto dei villeggianti.

“Siete gli amici di Mimmo?” Una voce nel silenzio si rivolge a noi da una barca su cui campeggia il nome S.Rosa.
“Si, ma tu non sei Tonino”.
“Sono il figlio, Cataldo. Mio padre oggi non può venire.  Ci siamo io e il comandante”.


Pochi minuti dopo arriva anche il comandante.
“Gennaro Morvillo” uomo di poche parole e gesti decisi nel preparare la barca.
“Ora potete salire”.


I gozzi da pesca sono lo spazio più complicato e affascinante che ci sia; in dieci metri lineari, oltre alla cabina di comando ci stanno le reti, le nasse, i remi, il verricello, il timone, secchi vari e due passeggeri che rischiano solo di essere d’ingombro. Questo lo sappiamo e pertanto chiediamo dove metterci senza disturbare.
“Per ora sedetevi qui” ci dice Cataldo, mentre il comandante affronta il buio del mare.


Accanto a lui che riempie degli artigianalissimi sacchetti a rete con pesce puzzolente, cerchiamo di capire i gesti di questa pesca con le nasse alla ricerca dei parapandoli, gamberi minuscoli che Mimmo dello Stuzzichino, a Sant’Agata ai Due Golfi, ci aveva fatto assaggiare qualche mese prima, instillando il desiderio di saperne di più.
“Sono aringhe salate – spiega Cataldo – che inseriamo nelle nasse. Il loro odore attira i gamberi nelle ceste dove restano prigionieri”.


Quello delle nasse è un metodo di pesca millenario, antesignano del rispetto del mare. Infatti le nasse sono attrezzi che permettono di pescare tutto l’anno proprio grazie al fatto che si utilizzano in prevalenza in zone difficilmente sfruttabili con altri sistemi e a profondità elevata.


“Stamattina andiamo intorno ai Galli (l’isolotto che fu residenza di Nureiev)e poi nei pressi dei faraglioni a Capri” spiega il comandante Morvillo. Chiunque potrebbe pensare al privilegio di stare in mare in questi luoghi meta di turismo lussuosissimo, invece noi cominciamo a capire quanta fatica ci sta dietro ad un chilo di minuscoli gamberi.


“Ma di chi è la barca?” chiediamo a Cataldo, dopo aver parlato della sua età, 26 anni da undici in mare, del suo futuro di pescatore – “non so se lo farò tutta la vita, ma per ora so che quando esco in barca il vento in faccia mi solleva dai pensieri, che restano concentrati sui gesti, sul mare, su come sarà la pesca” –  e di come è la sua vita quotidiana.


“La barca è nostra, di mio papà e di mio zio, il comandante”.
Solo allora capiamo che Tonino non fa Santarosa di cognome. Mimmo, come i parcheggiatori, ormai lo associano, per abitudine, al nome della barca.
I Morvillo sono in mare da almeno un secolo. Prima il bisnonno di Cataldo che dedicò il nome della prima barca a Rosa, sua moglie; poi i nonni di Cataldo – Tonino e Cataldo – a cui seguirono i figli, rispettivamente Gennaro, il comandante, e Tonino. Infine lui, Cataldo: il cui nome discende dal patrono di Massa Lubrense.
Con un filo di chiarezza in più, e al primo sole che dipinge la costiera, ci avviciniamo al comandante.


“Mio padre e mio zio furono i primi ad avere il gozzo con il motore. Vedi quella striscia di terra che scende al mare? – mi indica Gennaro – Da lì scendevano, mettevano in mare la barca a remi, gettavano le nasse sottocosta, dove il mare è comunque già profondo, raccoglievano i gamberi e, cesta in testa, risalivano a piedi quel tratto per andare a venderli ai primi alberghi di Sorrento. Mio padre e zio Cataldo ancora lo fecero, da ragazzi”.
“Ora, però, Simò, Luì, mettetevi lì, che dobbiamo tirare a bordo le nasse” ci intima Cataldo il giovane.


Li guardiamo e Simona comincia a sussurrare che, d’ora in poi, ci vuole rispetto quando mangeremo un gambero come questi.
Sono gesti sempre uguali, quelli della famiglia Morvillo, ma quanta vita, quanta esperienza, quanto sudore e fatica, quante delusioni e altrettante poche ma immense gioie ci stanno dietro a quei gesti: legare le nasse a dodici braccia l’una dall’altra, prima di gettarle in mare; riempire i sacchetti con le aringhe – un’esca che non può costare troppo, altrimenti il guadagno, già scarso, si riduce – e legarli all’interno della nassa; intrecciare le nasse, nei tempi morti, con giunchi e mirto: “ci vogliono due giorni per fare una nassa”, racconta Gennaro;

tirare a bordo reti di 500 metri con il varricello e liberarle a mano dai pesci; passare a mano quei 500 metri per pulire le reti da alghe, sassi, piccoli granchi, stelle marine, pesci di piccola taglia da rigettare in mare ancora vivi. Questo si fa, nelle lunghe ore trascorse ogni giorno in mare.


“Se non abbiamo perso niente, se non abbiamo rotto niente allora siamo contenti. – confida il comandante mentre rientriamo – Domani è un’altra giornata”. Ma oggi una rete si è impigliata nella montagna sotto il mare e hanno dovuto strappare.
“Il mare si è alterato in questi ultimi anni, ci sono correnti sottomarine anomale che prima non c’erano. – spiega Gennaro – La rete che abbiamo perso è causata proprio da questo, una corrente che non si era mai vista in questo periodo l’ha spostata di centinaia di metri. Anche i pesci non sono più gli stessi. Vivevamo di scorfani e, hai visto, ne abbiamo pescati tre”.


Fino a pochi anni fa la notte di Marina Lobra era rotta dalle voci di cento pescatori, dai motori dei loro gozzi, dai rumori affaticati degli Ape che salivano e scendevano tra i vicoli per consegnare il pescato su a Sant’Agata ai due Golfi.
“Ora siamo rimasti noi e un altro pescatore ad utilizzare le nasse. E, in generale, siamo rimasti in pochissimi a fare questo mestiere. E tu che fai Luì?” mi chiede Gennaro.
Che faccio? Racconto, ma soprattutto ho imparato a portare rispetto a chi fatica ben più di me.
Lo spieghiamo a Mimmo, su allo Stuzzichino, a sera quando ci porta in tavola i parapandoli, i paccheri con lo scorfano pescato al mattino; lui che a questi pescatori compra tutto, al giusto prezzo.


Glielo diciamo che ci vuole rispetto e che molti dovrebbero fare l’esperienza che abbiamo fatto noi per capirlo fino in fondo. Vediamo nei suoi occhi la gioia di chi fa la sua parte in silenzio.

Luigi Franchi
luigifranchi@solobellestorie.it

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